cerca i commenti ai testi

A - B - C - D - E - F - G - H - I - J - K - L - M - N- O - P - Q - R - S - T - U - V - Z

Recitativo e Corale




L'ultimo intermezzo sfocia nello straziante "Recitativo" finale: una condanna generale all'umanità, degli egoismi, dei benpensanti e dell'insensibilità, alternato al "Corale". Vengono messe nelle tracce come se fossero due canzoni ma in realtà è un unico brano dalle strofe intrecciate.
Le vediamo insieme, come lui le canta.

Uomini senza fallo, semidei 
che vivete in castelli inargentati, 
che di gloria toccaste gli apogei, 
noi che invochiam pietà siamo i drogati
Dell'inumano varcando il confine 
conoscemmo anzitempo la carogna 
che ad ogni ambito sogno mette fine: 
che la pietà non vi sia di vergogna

Questa è la prima invocazione agli uomini. Invoca pietà per i drogati (il disco si apre coi drogati) e si appella agli smidollati che vivono suoi loro castelli di ricchezze, agli uomini che non cadono mai in fallo, che non sbagliano mai. Poi comincia il coro.

C'era un re che aveva due castelli, 
uno d'argento uno d'oro. 
Ma per lui non il cuore di un amico, 
mai un amore né felicità

Eccoli i re nei castelli d'argento, senza amore e senza vita. Poi continua il recitativo.

Banchieri, pizzicagnoli, notai 
coi ventri obesi e le mani sudate, 
coi cuori a forma di salvadanai. 
Noi che invochiam pietà fummo traviate.
Navigammo su fragili vascelli, 
per affrontar del mondo la burrasca. 
Ed avevamo gli occhi troppo belli: 
che la pietà non vi rimanga in tasca
Giudici eletti, uomini di legge, 
noi che danziam nei vostri sogni ancora 
siamo l'umano desolato gregge 
di chi morì con il nodo alla gola.
Quanti innocenti all'orrenda agonia votaste decidendone la sorte 
e quanto giusta pensate che sia una sentenza che decreta morte?

La seconda invocazione è la pietà per le persone traviate, quelli che hanno sbagliato (la seconda canzone era per gli impiccati). E si appella ai grandi professionisti con la pancia piena.
E poi chiede ai giudici che hanno condannato a morte in nome della giustizia quanta giustizia ci sia in una condanna a morte. Poi torna il coro.

Un castello lo donò e cento e cento amici trovò
l'altro poi gli portò mille amori,
ma non trovò la felicità

Il Re infelice ha donato un castello in cambio degli amici e uno in cambio dell'amore. E ne trovò mille. Ma non era ancora felice. Poi torna il recitativo.

Uomini, cui pietà non convien sempre. 
Mal accettando il destino comune, 
andate, nelle sere di novembre, 
a spiar delle stelle al fioco lume, 
la morte e il vento in mezzo ai camposanti, 
muover le tombe e metterle vicine 
come fossero tessere giganti 
di un domino che non avrà mai fine.
Uomini, poiché all'ultimo minuto 
non vi assalga il rimorso ormai tardivo
per non aver pietà giammai avuto 
e non diventi rantolo il respiro:
sappiate che la morte vi sorveglia, 
gioir nei prati o fra i muri di calce, 
come crescere il gran guarda il villano, 
finché non sia maturo per la falce

Questo è l'atto d'accusa: uomini che non avete mai avuto pietà e avete giudicato, emarginato e ammazzato in tutti i modi i più sensibili, non accettate il destino ciclico comune a tutti (la morte, anche la vostra) e per questo fate i cimiteri mettendo vicine infinite lapidi, come fossero tessere del domino che tutavia al contrario del domino, non finirà mai la gente da seppellire. Per non farvi venire troppo tardi il rimorso di non aver mai avuto pietà per nessuno, vi dico sin da adesso che non siete voi a guardare la morte nei cimiteri, ma è la morte a guardare voi in ogni istante, mentre siete felici nei prati o mentre siete a casa vostra. Vi guarda come il contadino guarda crescere il grano aspettando che sia maturo per essere raccolto. Una condanna definitiva. Poi chiude con l'ultimo pezzo di coro.

Non cercare la felicità in tutti quelli a cui tu hai donato, per avere un compenso. 
Ma solo in te, nel tuo cuore, se tu avrai donato, solo per pietà.

Ed eccola la felicità. Non puoi cercarla nei rapporti costruiti per compenso. La felicità non è una ricompensa per aver donato qualcosa. La felicità si trova solo laddove tu hai donato per pietà.
Il disco si chiude è aperto licenziando Dio, quel Dio che giudica e separa i buoni e i cattivi. Dio è la morale che ci insegna la guerra. E si chiude con la pietà. La pietà che in fin dei conti è il sentimento di Cristo, la parte di Dio che si è fatta uomo. Non a caso due anni dopo pubblicherà un altro concept album che parla della storia di Gesù.






il mio romanzo

Una vita e mezza
Una Vita e Mezza è un libro che parla soprattutto dell’assenza. O meglio della ricerca, tanto demotivata quanto inconsapevole, di come si può costruire una ciambella salvagente intorno a quel buco che ti si crea dentro quando perdi una persona. Cosicché quel buco, che risucchiava tutto il presente privandolo di senso, possa trasformarsi nel nostro galleggiante. E addirittura salvarci, traghettandoci verso il futuro.
È la storia di un viaggio, metaforico quanto reale, di un ragazzo che è stufo del suo galleggiare, ma che non sa dare una scossa alla propria esistenza. Così parte fidandosi e affidandosi al suo amico, sperando che qualcosa di imprevisto lo colga per assaporare un po’ di brivido della vita.
Riuscirà a trasformare il suo futuro innamorandosene anziché rimanendone schiacciato e afflitto?
Se c’è un’intenzione mirata in tutto ciò, è la creazione del neologismo che indica il dolore per il futuro mancante, la mellontalgia. In contrapposizione con la nostalgia, che indica l’afflizione per il ritorno a casa (nostos), per il passato, per l’infanzia, questa è l’afflizione per to mellon cioè l’avvenire o le cose future, in greco antico. Vuole indicare un dolore attribuito al futuro negato e non vissuto. A ciò che poteva essere e invece non sarà mai. Chissà se se ne sentiva la mancanza.